Antonio Palitta: l'uomo e il poeta

16.03.2022

Non è affatto semplice parlare di una persona conosciuta da una vita e che, da piccolo, ti ha tante volte preso in braccio, il compito diventa oltremodo arduo se devi fare anche una breve disamina della sua attività letteraria.

Il rischio concreto è quello che il giudizio venga condizionato dalla lunga conoscenza, stima ed amicizia. Proverò comunque a descrivere la figura di Antonio Palitta, in occasione del centenario dalla nascita, nel modo più obiettivo e imparziale possibile.

Capita spesso di riferirsi a una persona, che vediamo o abbiamo conosciuto, con sufficiente distacco, spesso condizionati, ieri come oggi, dai nostri pregiudizi.

Antonio Palitta (1921-2003) era una persona profondamente umile, semplice, al punto da passare quasi inosservato e anonimo da parte dei nostri preconcetti, purtroppo ancora comuni a tanti.

L'apparenza spesso nasconde, dietro il sentito dire, delle personalità ricche, complesse, tormentate, che riescono a sorprendere se soltanto proviamo a sca-vare nella loro personalità e, in questo caso, nella produzione, nota e sconosciuta.

Ed è proprio il lavoro di scavo, su tzaponzu, dell'opera, che solo può aiutare a cogliere l'autentica comprensione e sintonia con chi scrive.

Definirlo esclusivamente come poeta sarebbe, a mio giudizio, limitativo; dietro i numerosi riconoscimenti da parte delle giurie, non solo isolane, c'è uno scrittore maturo, autodidatta e colto (le sue letture spaziavano senza limiti né barriere politiche nel vasto campo della letteratura mondiale), ricco di spiritualità, come dimostrano i quasi, per molti, sconosciuti racconti, gli intensi rapporti epistolari col mondo culturale sardo, oltre alla conclamata notorietà poetica.

Una personalità ben radicata nel giusto equilibrio tra i valori della tradizione ed apertura al mondo, alle novità e mode, come un attento approccio alla sua produzione potrebbe facilmente dimostrare. La scelta dell'utilizzo della propria parlata va ricercata nella formazione della generazione, quasi del tutto tramontata, nata nei primi anni dello scorso secolo, segnata da guerre, precarietà economiche, educazione, in molti casi, limitata alle scuole elementari, nutrita a pane, casu e sardo.

Questa è la realtà prevalentemente da lui descritta con accenti forti, spesso anche tragici, nelle prime poesie.

Negli anni '50, fu tra i maggiori protagonisti del passaggio dalla poesia tradizionale, che comunque continuò a coltivare, a quella moderna non impastoiata da schemi metrici, contribuendo a dare alla poesia sarda un più ampio respiro internazionale.

La poesia di tìu Antoni è il frutto di un faticoso travaglio interiore, ben supportato da una grande capacità immaginativa e, soprattutto attraverso la partecipazione a concorsi in ogni parte dell'isola e nazionali, il proficuo rapporto col panorama culturale e le assidue letture, si è raffinata nello stile, forma, musicalità e attenzione al dettaglio.

È un'operazione improba far emergere, costretti dai normali vincoli di spazio, i tratti salienti di qualsiasi autore; proverò a farlo ricorrendo all'aiuto di alcuni stralci della sua emblematica poetica.

Descrive la fatica, sacrificio e il sudore come: «de su samben cumpanzu 'e su dolore, de sa terra sale generosu... Eo so cumpanzu 'e s'agonia, pena e cuntentu de sa parturente, e cando so ispartu santamente, nobile so pregadorìa... ». Durante la mietitura «bestidu 'e carignos de fogu, tamba tamba camino subra brajas atzesas... Sa falche, ruja, paret messende fiamas...». Racconta il duro lavoro del contadino e del pastore con accenti festosi e malinconici, ma, quando vede le proprie speranze spazzate via da «mannujos de lutu» accompagnati da «cantigos de corrincias arrughidas» scopre tutta l'inadeguatezza e fragilità della fatica dell'uomo.

Ma sono soprattutto le piaghe endemiche della Sardegna a ispirarlo: emigrazione, furti, sequestri, la sorte degli ultimi ed emarginati, l'atavica aridità, materiale e spirituale, e i, purtroppo ancora attuali, incendi e disastri ambientali: «E sos chercos chi sempre an dadu a sas 'erveghes mias lande e sida, sun telarzos de fiamas e fumu, chi faghen de su sole una luna aumbrada a mesudie...».

«E su chelu, in bratzos suos, at leadu su mare e subr'a nois l'at isvagantadu». Tratta con acute declinazioni tematiche non semplici come lo scadimento del senso di famiglia, divorzio, aborto, ed è abilissimo nel tracciare con sottile ironia gli scontri politici, passati e recenti, del tutto noncuranti del bene comune.

Una vita sofferta tra periodi di ansia e sconforto, amava particolarmente Alda Merini, perché entrambi vivevano una condizione marginale di cupa solitudine, situazione che, talvolta, permette di leggere la realtà attraverso le lenti del disincanto.

È sempre stato sorretto - chi legge la sua produzione se ne può facilmente rendere conto - da un'incrollabile fede in Cristo e nel suo messaggio.

E, quando il bastone della vecchiaia «su caminu est finende... narat su 'achiddu meu» si pone accorata la domanda «Ma ite so istadu? Die misciad'a note o note solu? No, sa note m'assuconat! Segnore, aende piedade, e a sa die Tua abberimi sa gianna, cando a sa die-note tanco s'oju».

Con serenità riesce a chiudere la sua esistenza mondana con questi versi di tono ungarettiano: «Cando cust'umbra at a connoscher sa Lughe piena, si tet bestire de innijos de sole!»

Voglio concludere col pressante invito, rivolto a chi ama la letteratura poetica, ad approfondire la parabola umana, letteraria e spirituale di Antonio Palitta, con un'attenta analisi delle sue composizioni.

Angelo Carboni