Chi accoglie chi?

12.01.2021

«Un paese accogliente», abbiamo letto in una proposta programmatica elettorale. Proviamo a considerare gli strumenti per renderla concreta, analizzando le risorse presenti e quelle necessarie, individuando protagonisti e destinatari, esaminando esempi virtuosi, attivando un dialogo costruttivo. Perché non restino parole vuote o slogan ipocriti.


Alla domanda del titolo si potrebbe rispondere semplicemente: le persone. Esseri umani accolgono altri esseri umani. I genitori accolgono i figli fin dal loro concepimento; i figli accolgono i genitori fino al loro ultimo respiro...; ma fin qui siamo nell'ambito di affetti consolidati, anche se non sempre adeguatamente praticati: c'è qualcosa di naturale che rende - o dovrebbe rendere - normale, anche se spesso non meno fati-cosa, l'accoglienza, lo si chiami DNA, consanguineità o consuetudine di vita.

Il problema interessa la collettività, cioè una comunità umana inserita in uno spazio e in un tempo precisi, quando il soggetto e il destinatario dell'accoglienza non sono uniti da quel legame naturale, quando cioè sono estranei, diversi; sia che abitino lo stesso luogo sia che vi arrivino da fuori. Allora si passa dal singolare al plurale: una comunità accoglie una o più persone che, nella loro autonomia, cercano una sicurezza di vita, una prospettiva di lavoro, una speranza.

Un paese accogliente è, quindi, un ambiente aperto che, nei modi e con i limiti che gli sono consentiti dalle sue risorse, materiali o immateriali, prova a rendere disponibile quello che l'altro cerca, attraverso strutture che favoriscano la progressiva integrazione fino a far sparire, o almeno mitigare, ogni differenza sociale: una scuola in grado di educare (a tutte le età); una casa capace di proteggere dall'invadenza del clima o dei curiosi; una organizzazione sanitaria che garantisca cure adeguate alle inevitabili malattie; degli spazi in cui promuovere e far crescere relazioni sociali attraverso la condivisione di attività sportive, culturali, artistiche, etc...

Pattada è un paese accogliente? Se la risposta fosse negativa, perché? E se fosse positiva, potrebbe esserlo di più? Quanto dipende dai singoli e quanto dal-le istituzioni? Ha quella scuola, quelle case, quegli spazi, idonei a definirlo tale? Come potrebbe utilizzarli al meglio? Ecco le domande sulle quali ci piacerebbe aprire un dibattito franco con chi ha avuto l'onore e l'onere di guidare la nostra comunità, qualunque ruolo gli sia stato assegnato dalle scelte democrati-che dei cittadini. In questo focus presentiamo qualche spunto, auspicando che ciascuno voglia esprimere liberamente la propria idea, la propria proposta operativa, il proprio auspicio o, se lo ritiene, il proprio timore.

Un paese che ogni anno perde oltre una trentina di abitanti, dove quelli che re-stano sono sempre più anziani e quindi meno capaci di ricambio, dovrebbe affrontare il problema. Superata, verso il basso, anche la soglia delle 3000 perso-ne (alcune delle quali iscritte all'anagrafe ma non davvero residenti) dovrebbe porsi l'obiettivo urgente di fermare un decremento che inevitabilmente tenderà ad accelerare: dovrebbe essere, paradossalmente, accogliente per interesse. Se non altro per non continuare a osservare impotenti sempre più edifici tra-sformarsi in ruderi, mentre potrebbero dare ospitalità a qualcuno che la richiede; o per non continuare a perdere classi scolastiche; o per vedere di nuovo piazzette e stradine riempirsi di bambini che giocano. Ci vuole una politica, per rendere il paese prima attrattivo e poi accogliente. E ci vuole una politica anche per evitare che i giovani pattadesi siano costretti a lasciare il paese per trovare un lavoro: hanno bisogno di accoglienza concreta anche loro. Anche qui, paradossalmente, un sistema integrato ed efficace di accoglienza potrebbe costituire una risposta possibile.

Con l'epidemia in corso è stato sperimentato il lavoro a distanza; richiede, però, una qualità di connessione digitale ben più efficiente di quella attualmente disponibile: anche questa è un'ipotesi su cui riflettere per elaborare soluzioni. Insomma, c'è da mettersi a un tavolo e, magari con qualche esperto, esercitare la fantasia: il dibattito è aperto! (s.m.)


INTENDIAMOCI SULLE PAROLE

Etimologicamente accogliere significa cogliere e portare verso di sé, cioè prendere con sé. Quindi ricevere con dimostrazione di affetto, di simpatia, di capacità di ascolto e relazione. L'accoglienza non va confusa con l'ospitalità, intendendo per ospitalità la messa a disposizione di vitto e alloggio per un ospite o uno straniero. Si può infatti essere ospitali, ma non veramente accoglienti e si può essere accoglienti anche se non si dispone di un alloggio ospitale. È perfino abbastanza facile provocare reazioni negative anche se l'ospitalità è stata impeccabile, ma l'accoglienza nel senso sopra descritto è carente. Chi si sente accolto collabora più facilmente, nel senso che darà il meglio di sé per cercare di superare le difficoltà nelle quali si è venuto a trovare. Chi si sente solo ospitato, in qualche modo tollerato, cercherà di sfruttare la situazione a suo vantaggio.

Per accogliere veramente occorre non avere paura della diversità - dell'altro da sé - e cercare di vedere in essa l'opportunità di migliorare noi stessi.