Il lavoro che uccide

15.05.2021

Diciamo subito che ci interessa poco - o, meglio, ne siamo disturbati - delle polemiche Fedez-Rai; e anche del Disegno di legge Zan, lodevole nelle intenzioni ma scritto pessimamente, come la maggior parte delle leggi italiane di questo tempo, convinte, a torto, che basti una norma di legge per eliminare i problemi. Se un decimo delle energie che la politica italiana spende in queste polemiche insulse fosse dedicato a una poderosa, incessante, concreta opera di educazione e formazione, avremmo fatto parecchi passi avanti.

Per ora andiamo indietro, al passo di tre morti al giorno sui luoghi di lavoro: persone di ogni età, dai 20 ai 64 anni che vanno a lavorare per poter vivere dignitosamente e non tornano a casa, indegnamente immolati sull'altare di produttività, concorrenza, profitto.

Il mese di maggio inizia con la giornata dedicata al lavoro: si è trasformata in un concerto, spesso di dubbio valore musicale e di scarso valore sociale. Sarebbe ora di darci un taglio e di restituire il 1° maggio a una riflessione sulle condizioni del lavoro oggi e su quelle che si prospettano per domani, quando la tecnologia sostituirà progressivamente la manodopera. La scelta sarà tra far lavorare pochi con tempi sempre più opprimenti, e in condizioni di crescente insicurezza (le macchine raramente ammettono errori umani) o far lavorare tutti (o, almeno, molti) in condizioni degne di quel nuovo umanesimo assai proclamato e assai poco perseguito; lasciando a ogni lavoratore il tempo per assaporare il meglio della vita, che non è fatto solo di condizioni materiali, e pagando un sala-rio che lo consenta, riducendo il divario insostenibile tra la paga del manager di più alto livello e quella dell'operaio di livello più basso (un tempo il rapporto era di 20:1, oggi è passato allo scandaloso valore di 204:1).

Viviamo in una società ingiusta: lo ammettono ormai anche i capitalisti più illuminati, ma gli Stati nazionali e gli organismi sovranazionali (dall'Unione Europea ai vari Gx delle nazioni più ricche) fanno poco per modificare la struttura stessa dell'economia e per rimetterla al servizio della politica e del bene comune. Prevalgono i capitalisti accecati dal mito della crescita infinita, della finanza famelica, di coloro che fanno concorrenza e profitti sulle spalle delle persone: fabbriche chiuse, e riaperte dove il costo del lavoro è più basso perché le condizioni sociali sono peggiori, o dove vigono i paradisi (ma non sarebbe il caso di proibire l'uso scriteriato di questa parola?) fiscali.

Un'altra economia è possibile. Certo, sarebbe necessario che la sinistra smettesse di essere succube del mainstream (pensiero dominante) e riprendesse ad analizzare ed elaborare i modi in cui i valori di uguaglianza possono essere declinati oggi. Le fabbriche su cui si formò il pensiero marxista non esistono più. Ma il lavoro e il lavoratori esistono ancora. (s.m.)