Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson

16.05.2021

Miriam è un'anziana signora ebrea che vive in Svezia. Nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno riceve in dono dalla sua famiglia un bracciale con il suo nome inciso sopra. Ma quello non è il suo vero nome. «Io non mi chiamo Miriam» dice improvvisamente. L'affermazione è recepita dalla famiglia con curiosità e stupore, attribuendola all'inizio di una demenza senile o forse a uno scherzo. Ma in realtà diventa la chiave che apre la porta dei ricordi soffocati nel profondo dell'anima della protagonista, dando vita ad una narrazione imperniata su due piani temporali differenti. Dal presente, in cui Miriam viene sopraffatta dalle sue stesse memorie, veniamo proiettati all'interno degli eventi angosciosi della sua vita passata. Inizia così la storia di Miriam, che prima era Malika, una bambina rom strappata alla sua famiglia per ricevere un'educazione all'interno di un convento e successivamente deportata insieme a sua cugina Annushka e al suo fratellino Didi nel campo di con-centramento di Auschwitz.

Il lettore viene catapultato all'interno dell'orrore dei lager nazisti, in cui Malika, insieme a tutti gli zingari, già assoggettati dalla società, subisce l'odio non solo dei tedeschi, ma anche degli altri deportati, costituiti da una variegata tipologia di prigionieri.

Eppure, nonostante l'esistenza di questa gerarchia di importanza in cui gli sporchi rom occupavano l'ultimo posto come i più indegni tra gli indegni, tutti erano accomunati dalle stesse condizioni di vita: violazione della dignità dell'essere umano, sfruttamento del lavoro, nutrizione a base di brodaglie malsane e pane con segatura, esperimenti crudeli effettuati sui bambini dal dottor Mengele, disperazione, continue epidemie che scoppiavano nel campo, eliminazione fisica con pestaggi e camere a gas. E l'eterna presenza del forno crematorio costantemente acceso che, di fatto, appiana qualsiasi tipo di differenza etnica, politica, razziale.

La sopravvivenza a tutti i costi porta le persone a fare qualsiasi cosa. Anche cambiare identità. Così Malika, in seguito a una rissa con altre prigioniere polacche, per non farsi fucilare dalle SS è costretta a indossare la casacca di una prigioniera morta, una ragazza ebrea. Una ragazza ebrea di nome Miriam. Nel momento della liberazione Malika, ormai diventata Miriam, arriva in Svezia con la speranza di vivere una vita tranquilla e in libertà. Ma questo non è possibile per una ragazza rom come lei. Il romanzo ci presenta infatti una Svezia molto lontana da quella che immaginiamo solitamente. Una Svezia tutt'altro che tollerante, civile, aperta, rispettosa dei diritti di ciascun essere umano. La nazione in cui Miriam sceglie di vi-vere è corrosa dal pregiudizio nei confronti della sua etnia, gli zingari, i rom, che vengono perseguitati e che subiscono violenze perché intrusi, stranieri. Il gusto perverso per la violenza gratuita nei confronti del diverso mette sullo stesso piano nazisti e svedesi.

Io non mi chiamo Miriam è un romanzo che non lascia indifferenti. Parla al nostro presente invitandoci a coltivare la curiosità e la conoscenza contro il pregiudizio verso il prossimo (tutt'ora assai diffuso) attraverso il racconto di una donna appartenente a uno dei popoli più disprezzati della storia. È un libro sull'olocausto, ma è soprattutto un libro che obbliga alla riflessione sul concetto di libertà, sul rispetto di quel-la del prossimo, e sulla necessità di essere umani davanti alle sconvolgenti tragedie che ci circondano. Ora come allora.

Antonina Fenu