Istella mea di Ciriaco Offeddu

21.06.2025

Presentazione di Angelo Carboni

Un caloroso saluto a tutti e, in particolare, allo scrittore Ciriaco Offeddu, che ci ha voluto onorare della sua presenza.

Iniziamo la disamina della letteratura sarda in lingua italiana dal '900 ai giorni nostri.

Ho accolto l'invito con piacere, perché mi fa sentire partecipe, nonostante la distanza, solo fisica, della vita della comunità.

Chi mi conosce, sa quanto avrei desiderato fare questo intervento nella nostra amata e cara lingua, ma mi è stato chiesto di parlare della narrativa sarda in lingua italiana, perciò «Ubi maior, minor cessat».

Intendo innanzitutto premettere che sono soltanto un semplice appassionato di qualsiasi forma letteraria, internazionale, italiana e sarda, e non voglio minimamente indossare i panni del critico, non ne ho le capacità! Voglio precisare che non ho ancora letto, per mancanza di tempo, Istella mea di Chircheddu Offeddu, ma mi riprometto di leggerlo quanto prima. Ho solo letto qualche commento sul romanzo e ascoltato amici che lo hanno esaminato nascondendo a fatica il loro entusiasmo. Lascio quindi volentieri questa incombenza a Pietro Lavena e ad altri eventuali interventi.

Negli ultimi anni dell'800, alcuni allievi del criminologo Cesare Lombroso, portarono avanti la sua tesi sull'atavismo criminale, sulla base degli studi del cranio di alcuni delinquenti, che interessarono anche il fenomeno del banditismo sardo, definendo l'isola come "zona delinquenziale".

Non so quanto quest'aspetto, poi smentito dalla scienza, possa aver influito - molto più del desiderio d'emancipazione, in un'isola ancora caratterizzata dall'analfabetismo - sulla nascita della narrativa in lingua italiana. Personalmente, penso abbia in qualche modo inciso, seppur marginalmente.

Potete quindi chiedervi che funzione possa avere questo intervento? Mi è stato chiesto di tracciare brevemente il pur ricco panorama della narrativa di autori sardi in lingua italiana.

Non si può che iniziare dalla figura di Grazia Deledda, vincitrice, nel 1926, del premio Nobel per la Letteratura. Ho già rimarcato che ritengo di non possedere le stigmate per elogiare o affossare nessuna opera, soprattutto se letta tanti anni fa.

Voglio perciò evidenziare che, da giovane, lessi con passione e interesse i vari Canne al vento, Cenere, Cosima, Elias Portolu ed altri, provando le sensazioni che non ho riscontrato dopo una frettolosa rilettura, probabilmente perché concentrato nel vano tentativo di individuare in quale romanzo o sue novelle, avesse parlato della costante e fondamentale presenza dei torronai pattadesi nelle sagre della Barbagia.

Ho già sottolineato che il mio è un parere del tutto soggettivo, non sono infatti in grado di tessere i vanti né tanto meno di criticare o esorcizzare qualsiasi opera, e neppure quelle dell'autrice sarda più nota sul piano internazionale. Tutt'altro interesse e piacere ho trovato nella ripetuta lettura di Notte Sarda del canonico di Berchidda Pietro Casu, sia forse a causa della realtà più vicina alla nostra, che per i Contos de Foghile, che la mia generazione ancora ascoltava avidamente: Janas, fedatzas, sa mama 'e su sole, Babbolcu e la sanguinosa disamistade tra gli Scrocciu e Zinilca, che ascoltavo affascinato, nei racconti a casa e non solo.

Racconto in cui segnala diverse usanze tradizionali, come su ballu de s'arza, nonché la distanza comunicativa tra i due nuclei familiari richiesta dalle consuetudini del tempo, il gruppo dello sposo, con lui regolarmente dietro i genitori, rimase al limite del cancello del cortile di casa della futura sposa, nel richiedere una giovane; malgrado il romanzo sia tutto animato dallo spirito di vendetta.

Il docente universitario Nicola Tanda sosteneva che la differenza tra i due (Deledda e Casu) consisteva fondamentalmente nell'aura di fatalismo deterministico che pervadeva i romanzi deleddiani, che veniva superata dal prete berchiddese attraverso una concezione fondata sulla fede e sulla fiducia in un rinnovamento di quella che veniva chiamata l'anima sarda. La stessa che Gramsci definiva questione sarda, e meridionale in genere, ovvero il fatto del mecenatismo di sfruttamento al quale l'isola era sottoposta e di quelli che all'interno dell'isola portavano alla speculazione, affarismo e prevaricazione, da parte di pochi sardi.

Deledda e Casu sono simili nell'attribuire all'esistenza una dimensione catartica, come nel precedente scritto Aurora Sarda della prevista trilogia del Casu, a sottolineare il passaggio dalle tenebre alla luce di una eventuale e possibile rinascita; un'opera che non ebbe la fortuna del primo, e anche escatologica, ossia correlata alla fede e scopo ultimo dell'esistenza dell'uomo e della prospettiva dell'eternità.

Una realtà priva d'anima, vittima dell'inazione e alienazione, niente di diverso dell'atteggiamento evidenziato sopra, di cui parla Gramsci nel sottolineare la questione sarda.

Altri critici sono più cauti e riconoscono il debito del Casu nei confronti della Deledda.

A mio giudizio, nella loro modesta grandezza, lo stesso contrasto che tuttora contraddistingue i grandi Lev Tolstoj e Fedor Dostoevskij. Il primo che, nel formulare il suo nuovo vangelo, e la sua idea del cristianesimo come pacifismo e non violenza - che pur sono valori positivi - vedeva l'esistenza di Cristo come non necessaria, superflua per poterli conseguire e per il destino umano.

Mentre Fedor Dostoevskij, al contrario la riteneva essenziale per poter individuare il senso del male e della colpa, attraverso la figura e messaggio di Cristo. Sotto questo aspetto Dostoevskij e Casu sono piuttosto simili, nonostante nei libri della Deledda sia presente l'intervento della provvidenza e il senso cristiano. Entrambi gli autori mettono in evidenza ritualità ancestrali, con residui fiabeschi e magici, come mi pare anche Offeddu, quando parla delle surviles, che a Pattada chiamiamo fedatzas. La leggenda parla di donne normali che, di notte si trasformano in esseri fantastici, intente a portare i neonati a San Gavino, il punto più alto del paese, sede di un insediamento nuragico, romano, di un convento camaldolese, per succhiare loro il sangue, facendoli morire. San Gavino, oltre che uno stupendo punto panoramico, è circondato da un alone di magia, forse proprio per il suo passato misterioso. I vecchi parlavano dell'ingresso di due o più persone, attraverso un pertugio vicino all'attuale monumento ai caduti, in una vecchia foto definito "ruderi pisani", che non riuscirono a rivedere la luce.

Probabilmente, mi sono soffermato eccessivamente sui due autori, ma vedremo quanto sia ricorrente anche nella letteratura isolana il tema del male.

Seppur non in ordine cronologico, credo sia necessario citare Un anno sull'altopiano di Emilio Lussu, comandante di un reparto della Brigata Sassari, della quale racconta le gesta eroiche durante la Grande Guerra. Sappiamo che dal movimento dei reduci del conflitto, riunitisi a livello locale, anche a Pattada, nel 1919, peraltro ben documentato fotograficamente, presso la chiesa campestre di San Nicola, nacque il Partito Sardo d'Azione. 

Senz'altro da ricordare il romanzo bilingue, sardo e italiano, del nughedese Cicito Màsala, Quelli dalle Labbra Bianche nel quale l'autore - dopo aver parlato e ironizzato sulle differenze sociali del paese, metafora dell'intero macrocosmo sardo, tra i popolani poveri, malnutriti, anemici, per l'appunto laribiancos, i printzipales e il clero - passa a descrivere la disastrosa ritirata dell'esercito italiano nella campagna russa, durante la seconda guerra mondiale, alla quale prese parte. Romanzo che godette di notorietà internazionale, venne infatti tradotto in diverse lingue.

Per proseguire nella graduatoria personale, collocherei senz'altro uno che è considerato dalla critica tra i romanzi più interessanti ed importanti del panorama letterario europeo del '900, Il Giorno del Giudizio del magistrato nuorese Salvatore Satta. La prima volta che lo lessi, ebbi l'impressione di una declinazione sarda della Antologia di Spoon River. Entrambi parlano delle virtù e, soprattutto, dei difetti, del disincanto e lassismo che caratterizzano l'esistenza di queste due periferie esistenziali. Nuoro, negli ultimi anni dell'800 e primi decenni del secolo successivo, era un paese di 7050 abitanti, dettaglio fondamentale, come prova palese che quasi tutti si conoscessero tra loro, una realtà che l'autore definisce «un nido di corvi», «un paese che non ha motivo di esistere». Ed è proprio di Nuoro e della sua gente che lo scrittore parla, celatamente, ma non troppo, assumendo il ruolo del protagonista, l'alter ego di don Salvatore Satta Carboni, un titolo nobiliare di origine spagnola, del todos caballeros, riservato a quanti innestavano una cospicua quantità d'olivastri. Il personaggio principale è un notaio, sposato con sette figli, rappresentante della nascente borghesia locale, già mescolata con quella dei paesi limitrofi, che si riuniva nel caffè Tettamanzi, nel Corso, per passare in rassegna avvenimenti, vita e morte di quanti lo attraversano. Contrariamente alla nostra zona, perlomeno nei miei ricordi di nonna, mamma e di tante famiglie di conoscenti, vigevano il sistema e cultura matriarcali; compito della donna infatti erano l'educazione e formazione dei figli, la gestione, ricca o di sopravvivenza, delle risorse economiche, la cura, alimentazione, spese e pulizie della famiglia e casa. La donna non solo teneva le chiavi dell'abitazione, fit sa giaera de sa domo, ma spettavano a lei le decisioni più rilevanti sulla famiglia; mentre il marito trascorreva l'intera giornata, quando non settimane e mesi nell'isolamento della campagna, destino obbligato per pastores e teracos.

Al contrario, almeno nella borghesia nuorese, resisteva l'opposto, un rigido patriarcato, come testimonia l'espressione che il protagonista rivolge alla moglie: «Sei al mondo perché c'è spazio!».

Passati alla storia del centro i due insegnanti del vecchio convento francescano, trasformato in scuola dopo la confisca dei beni ecclesiastici di fine '800, il maestro Mossa, fervente credente, e il maestro Manca, che prima di andare dai suoi alunni, passava al botteghino per bere alcuni bicchierini di vernaccia, nonché poeta e suonatore di chitarra. Una volta, dichiarò ai piccoli scolari che la sua disgrazia era stata di sposare una continentale, mentre il maestro Mossa non avrebbe mai osato parlare di questioni familiari, al di là delle canoniche lezioni. Ma centro del racconto è il vecchio camposanto, «addossato a una rupe, che sembrava una parca»; la parca nella mitologia latina, in origine, era la dea tutelatrice della nascita, in seguito, diventate diverse, divennero responsabili del destino umano. Il vecchio cimitero era il traguardo di qualsiasi esistenza: assassini, abigeatari, prostitute, poveri e nobili, morti e vivi, dei quali coniuga la vita, chiedevano al notaio il modo migliore per poterci andare, quasi non avessero altra speranza che il giudizio divino.

La teologia cristiana fa una distinzione tra due forme di giudizi, appena dopo la morte, c'è quello particolare, ossia dell'anima, poi il finale, nel quale vivi e morti, che riprenderanno carne ed ossa, verranno giudicati sulla base delle loro azioni, rette o ingiuste, e inviati a condividere la gloria di Dio, angeli e santi, gli altri all'inferno.

Il pensatore e teologo cattolico Von Balthasar sosteneva l'esistenza dell'inferno, ma lo riteneva vuoto.

Salvatore Satta era anche un esponente della DC locale; qualche anno prima della morte si batté strenuamente contro l'approvazione del divorzio e cercò di mediare col PCI, ma sappiamo tutti come andò a finire. Vari i commenti della critica, chi lo definì un cristiano ortodosso, altri addirittura un eretico.

A Cagliari riscuotevano un grande successo i saggi e romanzi dell'antropologo Giulio Angioni, che devo ammettere di non conoscere che superficialmente, anche se diversi conoscenti parlavano in termini positivi di Sa laurera, L'oro di Fraus, e Assandira. Ho invece letteralmente divorato Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni che, tra storia e mito, racconta le misteriose origini del popolo sardo, con tono quasi fiabesco, come pare suggerire il titolo; Il figlio di Bakunin, pubblicato pure in versione cinematografica, che tratta di un minatore del guspinese, lotte sindacali e varie esperienze; Il quinto passo è l'addio, scritto con la cadenza di passo di ballo, sulla nausea esistenziale che spesso assale i nostri giovani per la propria terra dimenticata, abbandonata, priva di prospettive, che si conclude col protagonista costretto a lasciare la Sardegna dal porto di Cagliari. L'ultimo suo scritto è Bellas mariposas, che parla in maniera divertente e spassosa, raccontata nel loro gergo da due adolescenti di un quartiere popolare della città.

Mentre nel capoluogo settentrionale dell'isola iniziavano ad imporsi le opere narrative di Salvatore Toti Mannuzzu, magistrato anche lui come il Satta, e di Alberto Capitta (tra gli altri libri, autore del magnifico, almeno a mio giudizio, Alberi erranti e naufraghi che racconta the plot intrecciato di tre famiglie, destinate ad autodistruggersi tra loro). Nonostante abbia ricevuto vari premi, anche nazionali, è tuttora messo da parte, poco considerato dalla saccente critica dei soloni del Continente

Molto successo riscossero i romanzi di Toti Mannuzzu: Un Dodge a fari spenti, Le fate dell'inverno, anche se quello che gli diede notorietà nazionale fu Procedura, un giallo ambientato nella sua Sassari. Personaggio, politico, autore ed intellettuale a tutto tondo. Parlamentare nelle fila del PCI, come indipendente, per tre legislature, benché proseguisse la collaborazione col quotidiano cattolico Avvenire, del quale pubblicò i suoi interventi in Testamenti. La sua vita fu segnata da alcune tragedie famigliari, la prima dalla morte del fratello, seguita dalla morte della figlia, poi da quella della moglie. Trascorse gli ultimi anni dell'esperienza terrena a letto, alle prese con una grave malattia, sempre sostenuto dal conforto della fede e dal proverbio sardo che da sempre aveva sentito a casa, che in italiano recita così «l'amaro ti sia caro». Il solo modo attraverso cui la persona può crescere e diventare adulta. Tutti cerchiamo di vivere felicemente e nella serenità, molti sentono di poterla raggiungere nell'accumulo di beni terreni, che sicuramente aiutano, ma non tardano a rivelarsi passeggeri ed effimeri, e, a un certo punto della vita, ci rendiamo conto che questa ricerca è una utopia, di fatto l'esperienza è un confronto continuo col dolore, delusioni e frustrazioni, un percorso tante volte disseminato di croci e macerie, che ognuno, credente o no, deve affrontare accettandoli ed offrendoli con speranza cristiana, proprio come ci hanno insegnato e lasciato in eredità diversi degli scrittori nominati, e la ha vissuta fino all'ultimo istante Toti Mannuzzu.

In fondo, un libro che rimane, alla fine, deve poter lasciare un messaggio, farci maturare.

Non si può chiudere che con Michela Murgia; più che del romanzo Accabbadora, letto in due serate, un testo moderno scritto sulla base di antiche usanze e leggende, vorrei soffermarmi sull'impegno sociale e politico. Donna dai poliedrici interessi, studiosa di teologia e del linguaggio, soprattutto contro qualsiasi forma di discriminazione, accanita femminista, al punto di definire e considerare quello dell'altra metà del mondo ancora come «pensiero afono», senza voce e poco ascoltato. Tentò di candidarsi alla presidenza della Regione, definendosi autonomista, termine che, in tanti anni, non siamo riusciti, ahinoi, a cogliere né ad attuare, che si spinge addirittura a dichiararsi indipendentista, ma non ebbe successo. La sua battaglia contro il patriarcato è, probabilmente, collegata al rapporto conflittuale avuto col padre; compiuti 18 anni, lasciò la casa per vivere dagli zii.

Tutti gli autori citati partono dalle proprie radici identitarie, la sola ed essenziale maniera per evidenziare la propria cultura, specificità e particolarità, sul piano internazionale. Auguro di non essere riuscito ad annoiarvi.

Prima di chiudere, voglio porgere le mie scuse ad Antonio Pigliaru, Michelangelo Pira, Giuseppe Dessì, Giuseppe Fiori, Gavino Ledda, Giorgio Todde, Marcello Fois, e agli autori della nouvelle vague, che sicuramente continueranno a dare lustro alla nostra letteratura.

Buon proseguimento e, se potete, scusatemi per essermi dilungato eccessivamente!

Angelo Carboni