La partecipazione nella democrazia contemporanea

12.02.2022

Un saggio di Roberto Deriu e Gabriele Serra: una comparazione tra Italia ed Estonia


La partecipazione alla vita pubblica è, in democrazia, la condizione per la quale le scelte politiche (leggi, provvedimenti governativi, pianificazioni e programmazioni, investimenti) siano aderenti alla volontà popolare.

La rappresentanza politica è infatti una finzione giuridica: il parlamento è eletto dal popolo, e pertanto ne rappresenta la volontà, per definizione; cioè solo in teoria, sulla carta, perché così prevedono le costituzioni. Ma la realtà effettiva è che, senza un'attiva partecipazione politica delle masse, i decisori pubblici sono privi del reale sostegno popolare. Le decisioni, in caso di estraneità delle masse al processo politico, alla politica in generale, sono deliberate in vertici ristretti, da ristrette élite. Al comando della legge allora si obbedisce non per convinta adesione alle motivazioni e alle procedure che l'hanno prodotta, ma per conformismo e acquiescenza, quando non per mero timore delle sanzioni conseguenti alla violazione del precetto.

La radice dell'obbedienza all'impero della legge non affonda più, in quel contesto, nella comune volontà, ma nella diffusa opinione che non se ne possa fare a meno; ecco perché in una democrazia priva di partecipazione tanto è in evidenza la tecnica di manipolazione, da parte delle élite dominanti, dell'opinione pubblica (la cosiddetta postverità) attraverso ogni mezzo disponibile di comunicazione (e quindi di persuasione) di massa. Decisa in nome del popolo, ma senza il suo consenso, la legge viene rivestita di obbedienza tramite un processo di creazione del bisogno simile a quello utilizzato nella pubblicità commerciale.

In una società democratica ideale, il popolo invece partecipa attivamente al processo di formazione dell'opinione pubblica, attraverso modalità di accesso al dibattito che sempre precedono la decisione delle istituzioni politiche, a qualunque livello (comunale, territoriale, statale, sovranazionale). Tale ideale condizione di partecipazione permanente e generalizzata delle masse è stata ipotizzata, sperimentata e praticata, per la prima volta in Italia, paradossalmente proprio in un esecrabile contesto storico-politico non democratico e non liberale: il fascismo. Mussolini individuò infatti nel partito «lo strumento per l'educazione politica del popolo», che egli volle sempre mobilitato e presente intorno alle più significative scelte del suo regime, pur naturalmente sotto il condizionamento dell'opinione pubblica attraverso il controllo assoluto - totalitario - dell'informazione e della cultura.

Il popolo italiano sotto il fascismo non fu estraneo alle scelte politiche del regime, ma in esse integralmente coinvolto come soggetto attivo, pur senza disporre delle minime condizioni di libertà nella formazione della propria coscienza e delle proprie determinazioni (sino a far dire allo stesso Mussolini che «Il popolo italiano è il più politico del mondo»).

Quel modello partecipativo - comune peraltro agli altri totalitarismi dell'epoca - fu poi ereditato nei suoi tratti tecnici concreti dal sistema plurale dei partiti nella prima fase storica della Repubblica. La mobilitazione capillare del consenso fu pertanto demandata a un regime partitocratico che registrò, sotto il profilo della cultura organizzativa, una sorprendente continuità col fascismo e il suo modello di partito, a sua volta ispirato, nelle forme esteriori, ai movimenti di matrice marxista nati alla fine del-l'Ottocento.

La competizione di più soggetti politici per la conquista del consenso creò però, a differenza di quanto accadde sotto il fascismo, una positiva dialettica del confronto, capace di determinare una più accettabile condizione di pluralismo delle idee e un più effettivo accesso delle masse sia alla discussione e decisione sia alle classi politiche che componevano i partiti. La crescita - per alcuni versi abnorme - degli apparati a sostegno di un welfare universalistico, integrarono ulteriormente le masse nella vicenda pubblica.

Tale contesto fu particolarmente condizionato dall'evoluzione delle tecnologie dell'informazione, a partire dai mezzi di comunicazione di massa, e soprattutto - tra questi - dalla televisione, per giungere sino al gigantesco sviluppo dei social e della comunicazione orizzontale in rete. Nella civiltà dell'informazione, ove le conoscenze sono disponibili tutte insieme, in ogni momento e ovunque, il problema dell'esistenza di una dialettica del confronto tra le diverse opinioni e della verifica delle fonti di informazione diviene centrale.

Il cittadino, risolti i problemi dell'accesso ai dati sui quali si basa la discussione pubblica, si trova però inaspettatamente escluso dalla decisione politica proprio per la sua incapacità di gestire lo spropositato numero di informazioni a sua disposizione, in assenza di consolidate procedure di confronto al di fuori del suo stretto contesto esistenziale (la cosiddetta bolla). L'isolamento del cittadino dai luoghi della decisione effettiva e la sua privazione di strumenti di verifica dei dati a sua disposizione, producono pertanto un ostacolo insormontabile alla partecipazione politica, escludendo, come nei regimi totalitari, la possibilità di formazione di una coscienza libera e informata, presupposto essenziale per ogni protagonismo politico.

In questo senso possiamo dire che la partecipazione del cittadino alla decisione politica, seppur resa più diretta e accessibile dalle tecnologie, rischia di essere priva di effettività. E ciò poiché la possibilità materiale di far giungere il proprio consenso o dissenso al centro decisionale ripropone il problema di come quel consenso o dissenso si siano formati, secondo quale processo elaborativo e al cospetto di quali dati.

Vi è comunque da ricordare come in alcune società contemporanee l'utilizzo generalizzato della tecnologia per aumentare la capacità di accesso del popolo alla decisione pubblica è stato comunque salutato con molta fiducia e apertura, ad esempio in Estonia, ove un simile atteggiamento è riscontrabile.

Ad oggi, infatti, l'Estonia è lo stato più avanzato in termini di pratiche relative all'e-democracy: è stato questo il primo Paese a utilizzare, in votazioni legalmente vincolanti, il voto elettronico via internet. In una situazione facilitata dall'introduzione (già nel 1999) di un registro informatizzato degli aventi diritto al voto, sono state create le basi legali per introdurre il voto elettronico. Dopo il positivo risultato di un progetto pilota effettuato a Tallinn, si è avuto il primo utilizzo effettivo in occasione delle elezioni locali dell'ottobre 2005.

Sono due le peculiarità del voto estone: la prima risiede nella possibilità di votare anticipatamente, dal 10° al 4° giorno prima dell'elezione, col metodo della doppia busta. Tale metodo consiste, nella sua versione cartacea, nella ricezione - da parte dell'elettore - di una scheda elettorale e due buste; espresso il voto, la scheda viene inserita in una bu-ta interna, anonima, e questa viene a sua volta inserita nella busta esterna, recante i dati identificativi. Analogamente, con il sistema elettronico, l'elettore crea una busta interna virtuale, che è essenzialmente un voto criptato, e una busta esterna virtuale, che è sostanzialmente una firma digitale. Per poter votare elettronicamente, il votante si collega al sito del Comitato Elettorale Nazionale; una volta identificatosi, con un codice PIN1, il sistema verifica che l'elettore sia registrato, dandogli modo di esprimere la propria scelta confermandola col codice PIN2. La seconda peculiarità risiede nel fatto che ciascun elettore possa votare anche più di una volta, secondo una regola per cui il voto più recente annulla quelli precedenti. Inoltre, per evitare eventuali influenze e condizionamenti, viene data la possibilità di votare anche in seggi presidiati con le tradizionali modalità del voto cartaceo e il voto espresso al seggio prevale su quello eventualmente espresso su internet.

Il voto via Internet è stato utilizzato in Estonia dal 2005, mostrando una diffusione sempre maggiore tra i cittadini. Per quanto l'incremento del voto via Internet in Estonia sia evidente (46,7% Europee 2019), più dibattuta è la quaestio relativa all'aumento assoluto in termini di partecipazione: studi statistici hanno messo in evidenza, in occasione delle elezioni del 2009, che soltanto il 16,3% di coloro che votarono via Internet dichiarò che se non vi fosse stata tale modalità di voto non avrebbe votato, comportando una diminuzione complessiva dell'affluenza del solo 2,6%.

La questione tecnologica è però un aspetto secondario quando si parla di suffragio, rispetto ad altri ben più rilevanti. Innanzitutto, qualsiasi tecnologia sperimentata - in un modo o nell'altro - è stata pesantemente criticata, al punto da far sì che ogni tentativo futuro di introduzione in chiave strutturale risultasse compromesso. La motivazione di questa critica diffusa, da cui non è stata esente nemmeno l'Estonia, risiede nell'incrocio tra le ragioni che portano all'introduzione di forme di voto elettronico, e la sincronizzazione quasi impossibile tra giurisprudenza, iter procedurali e tecnologia, che contribuisce alla mancanza di fiducia dell'elettorato.

Nello specifico, tra le ragioni, variamente discusse in dottrina sono quelle della economicità del voto elettronico e della sua efficienza, che risultano vere soltanto nel caso di voto da remoto, e inoltre la possibilità che il voto elettronico possa essere in qualche modo un modello di risposta al deficit nella partecipazione riscontrato negli ultimi decenni.

Certamente, pensare al costante calo nell'affluenza ai seggi e a una diminuzione generale dell'interesse verso questioni relative alla politica e alla rappresentanza (basti considerare che alle prime elezioni della camera dei deputati, nel 1948, partecipò il 92,23% del corpo elettorale, mentre già nel 2013 la percentuale era del 75,20% - fonte Openpolis), potrebbe portare a una frettolosa conclusione per cui potrebbe bastare una forma più veloce, sicura ed inclusiva di suffragio per rialzare i livelli di partecipazione.

Al contrario, invece, come abbiamo potuto verificare dopo aver riportato il caso estone - in cui i dati sulla partecipazione mostrano un aumento minimo dei voti registrati - considerando che l'introduzione in Italia di un voto non presidiato sarebbe possibile esclusivamente per quanti oggi possono fruire del voto assistito o per corrispondenza, i benefici sarebbero evidentemente risibili.

L'aumento nella partecipazione è invece un concetto di carattere molto più ampio, che nasce dal convincimento, da parte delle varie istituzioni a livello politico e burocratico, rispetto alla necessità dell'apporto dei cittadini per una maggiore articolazione della democrazia, e per l'ottenimento di un più alto livello di efficienza dell'azione pubblica.

Un degno esempio di questo è stato il Movimento Cinque Stelle, che nel tentativo di ampliare la sua base partecipativa ha introdotto Rousseau: quanto rilevato dal Garante porta a dedurre che però, oltre ai problemi di privacy degli utenti, sostanzialmente sia molto difficile tenere il passo con l'evoluzione tecnologica e contemporaneamente bilanciare questo con l'esigenza di efficienza che accompagna l'utilizzo di un simile sistema. In altre parole, ha dimostrato come, spesso, nel tentativo di combattere la mancanza di trasparenza o la diffidenza delle persone verso la rappresentanza, si possa invece finire per attuare un sistema che comunque avrà delle debolezze e non sarà mai esente da critiche, creando l'effetto opposto. A dimostrazione di ciò, basti considerare il calo progressivo nei consensi, o il numero di votanti su Rousseau che non coincide minimamente con il numero di elettori del M5S.

È quindi necessario che da parte dei cittadini si superi quel clima di sfiducia nella politica e nel funzionamento delle istituzioni, che connota l'atteggiamento soprattutto delle parti più deboli della società, che sono quelle a cui maggiormente possono giovare istituzioni di democrazia partecipativa complementari. In sostanza, è necessario rivedere la modalità con la quale si approccia il voto, senza considerare quello elettronico come un mezzo per giungere al fine di una maggiore partecipazione o interesse, ma unicamente strumento di espressione di un maggiore attaccamento alla cosa pubblica e della conclusione di un percorso di democratizzazione della democrazia, da raggiungere tuttavia in altro modo.

Un voto, quindi, che sia personale e libero, cioè che malgrado la distanza consenta una identificazione puntuale e una contemporanea sicurezza di non coercizione, che sia segreto, cioè che riesca a concedere privacy all'elettore, ma allo stesso tempo verificabile con metodi semplici, senza lasciare che la conoscenza di pochi inquini di sospetto un proposito che nasce come positivo; che garantisca infine l'uguaglianza dei cittadini, in modo che tutti possano utilizzare tutti i metodi, senza barriere, restrizioni o disparità di trattamento.