Le contraddizioni che preparano il caos

Gli schieramenti in campo sembrano ormai definiti: una destra ancora una volta basata sull'alleanza politica tra Fratelli d'Italia, in testa nei sondaggi, Lega e Forza Italia, e che torna a cavalcare gli argomenti che le sono più congeniali, dal taglio delle tasse alla chiusura dei porti, e che aggiunge una proposta di riforma costituzionale indirizzata verso il presidenzialismo; un centro sinistra che cerca di contrastarla con un accorrdo elettorale ma che sconta negativamente la scelta del segretario del PD, Enrico Letta, di chiudere ogni rapporto con il Movimento Cinquestelle, indebolendo fortemente la capacità di contendere la maggior parte dei collegi uninominali (147 alla Camera e 74 al Senato) dove viene eletto il candidato che prende un voto in più degli altri; un centro dove Italia Viva e Azione si accordano per provare a superare la soglia di sbarramento del 3%; i Cinquestelle, che scelgono di correre da soli tornando agli schemi originari, vantando la realizzazione di una buona parte del loro programma elettorale ma che i sondaggi danno in calo con una forte divaricazione territoriale tra un centro-nord dove rischiano di scomparire e un Sud (isole comprese) dove invece mantengono un bacino elettorale più che ragguardevole. E poi la solita aggregazione della sinistra radicale che fatica a mettere in campo una massa elettorale in grado di incidere sul dibattito politico, penalizzata anche dalla necessità di raccogliere in pieno agosto le firme necessarie alla presentazione delle liste.
Tuttavia, già nella composizione di tali schieramenti si intravedono numerose contraddizioni che sembrano preludere a una scomposizione e ricomposizione di tutti i partiti, all'interno dei quali le scelte fatte non sembrano essere del tutto condivise e che emergeranno ancora di più nella fase di formazione delle liste. Forza Italia, che finora aveva perso consensi a favore della Lega, vede tre dirigenti storici come Brunetta, Carfagna e Gelmini spostarsi verso il centro di Calenda, non condividendo la scelta di votare la sfiducia a Draghi e di sposare l'estremismo degli altri due partiti. La stessa sorte ha subito il M5S con la fuoriuscita del ministro degli esteri Di Maio. E anche a sinistra la contraddittoria scelta di Letta di escludere i cinquestelle per aver sfiduciato Draghi ma contemporaneamente di aprire a Sinistra Italiana che la fiducia a Draghi l'aveva sempre negata, ha provocato malumori interni sia nel PD che in SI.
In Sardegna, regione penalizzata dal taglio dei parlamentari, la situazione a sinistra è resa più complessa dai difficili rapporti nell'attuale opposizione in Consiglio regionale, dove i consiglieri che fanno riferimento a Possibile e Demos (una formazione vicina alla comunità di Sant'Egidio) hanno lasciato il gruppo dei Progressisti per formare un gruppo unico con i consiglieri eletti in LeU. Inoltre, il gruppo dirigente di ArticoloUno (la componente di LeU che fa capo al ministro della salute Speranza) si è opposto strenuamente all'accordo col PD, disimpegnandosi da tale scelta; e anche in Sinistra Italiana il dibattito ha sancito una divisione, sia al livello nazionale che a quello regionale, dove - anche in vista delle prossime elezioni regionali - il partito lavorava a consolidare l'alleanza a sinistra, aprendola a gruppi autonomisti cone i Rossomori.
Insomma, ce n'è abbastanza per ritenere che l'esito elettorale non lascerà nessun partito uguale a prima.
Intanto, la destra pone sul tappeto temi particolarmente dirompenti, contro i quali occorrerebbe battersi con maggiore efficacia: la flat tax, che abbassa le tasse ai più ricchi a scapito dei più poveri (perché il vantaggio fiscale non è paragonabile e perché a lungo andare penalizzerebbe ogni forma di welfare); la trasformazione della Repubblica Italiana da parlamentare a presidenziale; l'autonomia regionale differenziata, che favorisce le regioni più benestanti a svantaggio di quelle meno forti: su questo, non su tattiche elettorali, è da giocare la partita.