Nanneddu Camboni: artigiano della parola

Giovanni Camboni (1917-1991) oltre a essere un raffinato artigiano della parola, era molto altro. Una personalità che il ruolo di impiegato comunale, pur diligentemente svolto, faticava a contenere.
A un primo approccio, poteva dare l'impressione di una persona dal carattere chiuso, di uno che preferiva starsene un po' sulle sue, ma era una sensazione che svaniva immediatamente non appena iniziavi a parlarci.
Profondo conoscitore dell'animo umano e del mondo, aveva pure provato la dura esperienza e fatica dell'emigrazione. Quando, negli anni '80, andavo a fargli visita, lo trovavo nel suo studio, nascosto da cataste di libri, seduto al lavoro nella sua scrivania. Le sue letture svariavano su una vasta particolarità di tematiche, romanzi, letteratura in limba, libri di antica e poesia contemporanea: i suoi preferiti erano Majakovskij, Lorca, Neruda, pensai per la comune lotta contro ogni forma di oppressione e la spasmodica ricerca di dare un senso all'esistenza. Ma erano i libri di cultura sarda e i vari dizionari di limba che immediatamente attirarono la mia attenzione. Durante le diverse visite, mi resi conto che era anche un sottile ricercatore di lemmi scomparsi o almeno rari della variante linguistica del paese, oltre che un appassionato lettore e meticoloso indagatore della storia e tradizioni del paese. Come il poliedrico studioso locale monsignor Francesco Amadu, non condivideva alcune interpretazioni del linguista tedesco Max Leopold Wagner, responsabile - a suo giudizio - di aver trascurato la ricca parlata di Pattada e di averne travisato vari termini. Mi pare di ricordare di aver notato sul suo scrittoio il DES (Dizionario Etimologico Sardo) con, tra le pagine, una serie di appunti. Anche questo mi aiutò a capire il motivo che lo aveva spinto a fare uso del sardo, nelle sue splendide varianti logudorese e locale. Tra gli anni '60 e i primi '70, fu tra i protagonisti del processo di radicale cambiamento impresso alla poesia in limba, il passaggio da quella in rima ai versi liberi, ma soprattutto la svolta da temi prettamente locali a quelli di più ampio respiro universale e, per tiu Nanneddu, senza l'abbandono delle proprie particolarità e un nuovo afflato poetico. Non c'è nessun intento di captatio benevolentiae se affermo che lo stimavo dal punto di vista umano, come certosino tzapadore linguistico, e che apprezzo enormemente la sua, purtroppo limitata, produzione poetica.
So che aveva affidato l'intera sua raccolta poetica a un docente universitario perché ne curasse un'eventuale pubblicazione. Sarebbe di fondamentale importanza che qualcuno s'impegnasse nel suo recupero, in modo da far conoscere questa personalità così complessa e, allo stesso tempo, la sua visione poetica, che potrebbe persino apparire cupa, triste e venata di rimpianto solo ad una superficiale lettura, ma, in realtà, ricca d'intimità, penetrante, coinvolgente, colma di speranza e soprattutto libera.
... Miro su 'enidore / de su chi produo, poeta criadore / e apo sos eredes in fiza e in fizos / chi una die poden disponner / de sos suores mios pro diritu / e no s'an-zenu 'isadore a palas mias... Una velata polemica, ma soprattutto una speranza e un invito!
Già le sue 20 poesie, pubblicate nell'87, con quelle di Monzitta e Palitta, nell'antologia Paraulas de poesia, offrono un'ampia sintesi del suo pensiero e forza immaginativa. Chiama la morte, definendola sorella, come san Francesco:
Istanote sa morte at uruladu / subra su pinu de fronte a su balcone / sos canes a toroju in s'istradone / oriji ritzos s'aera an segadu. / E cantas boltas bi lis apo nadu / chi sa morte m'est sorre in pessone...
La concezione e il travaglio dello scrivere occupa in lui uno spazio privilegiato:
... Su coro marteddende sos versos / est in butega; / pro cussu sa 'oghe mia / est che unu basciu / pessende a conca boida, pesosa / cantu sos pes de sa domo... Rifugge dalla gloria mondana, scrive perché attraverso la poesia riesce a col-mare l'ansia di infinito: ... Est inutile sonniare unores! / Eo mi che torro a limare / su versu ammossadu in su caragolu / e pro l'intender intinnire / cando tet leare sa tempera / in sa pica 'e s'abba. Sono una enorme varietà i temi affrontati nella sua produzione conosciuta, ogni verso offre tanti spunti di analisi e riflessione.
Bos imbio su coro meu / cantende... / Leadelu chin grabbu: / est musica de 'irdes notas / chin sa melodia in buca. / In sas tancas de su chelu / abitan sas istellas: / Ite naran passizende / in mantos de seda biaita? / No b'at fiores allizados / in su chelu, / ma lughes inamoradas / comente bramat su coro / cando cantat sa note serena...
Problemi di spazio mi spingono a concludere, facendo ascoltare la sua voce sui corsi e ricorsi storici, cari a Giabattista Vico, tema, ahinoi, sempre di stretta attualità:
S'istoria est sambene apietadu,
iscrita chin pedassos de peta
e de ossos segados a cantos.
Finas s'ostensoriu in s'altare
no l'interessat s'at s'arrastu
o su fumu 'e s'incensu.
Bi cheret un'esercitu
de pulpas e de ossos,
ei s'alenu pianghende
s'ultima lagrima sica.
Sos istrategas s'apican sas medaglias,
ma sos mortos no sempre an sa rughe;
sos fertos perden sambene,
ligados chin sa coa 'e sa camija.
S'armada est reduida a ossos isgiantos
e ancas e bratzos bolende
si aunin in altu a sas concas;
sos isentos miran s'iscena istremutidos.
Cando ten sonare sas trumbas
de Giosafat o Cedron,
ten torrare chin s'ossamine a pala
o suta sos suilcos,
dubbiosos si sun issoro o anzenos,
pro su giudisciu universale.
Poveros umanos, traitos
dae sos potentes chi giogan e rien
in s'ignorantzia nostra.
E nois, che macos cantamus
subra sa tzeghidudine incorporada,
pro ingrassare sos rassos
profitadores de sas debbilesas
e timorìa. Chi sian maleitos!
Angelo Carboni