Non solo rose e fiori

12.02.2021

Confucio disse una volta: «Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita». Credo sia il mio caso. Ho scelto per lavoro una passione e, soprattutto in primavera a fine giornata, non vedo l'ora che arrivi domani per riprendere le operazioni che avevo lasciato in sospeso: vedere una famiglia di api che, anche grazie al mio lavoro, si sviluppa, cresce e infine produce, è una grande soddisfazione.

È vero, le api non aspettavano certo me per fare tutto ciò. Ma un bravo apicoltore instaura con le api un rapporto non di sfruttamento ma di simbiosi, cioè di reciproco vantaggio. L'apicoltore fornisce un rifugio, cioè l'arnia, che le protegge dai predatori e dalle intemperie, cura le loro malattie, le di-fende dai parassiti e, in caso di stagioni avverse, viene in soccorso per superare le carestie. Insomma, le fa star bene. Solo quando le api stanno bene sono in grado di ricambiare il favore immagazzinando miele in quantità di gran lunga superiori al loro fabbisogno: e questo surplus è il mio raccolto. Chi, viceversa, prende tutto avidamente non è un apicoltore ma un predatore, e come apicoltore non farà molta strada.

Purtroppo, nella mia attività non è tutto rose e fiori. Da almeno 20 anni le cose sono rapidamente cambiate in senso negativo. Con l'avvento della varroa (un parassita letale delle api) ormai gli alveari non sopravvivono senza l'intervento dell'apicoltore, e fare questo mestiere sta diventando sempre più complicato. Molti operatori si scoraggiano e abbandonano l'attività, per almeno due motivi: il cambiamento climatico in atto e l'utilizzo sconsiderato in agricoltura di nuovi pesticidi che persistono nei terreni, e quindi nelle piante, per decenni.

La moria delle api di cui tanto si parla non ha cause misteriose ma un preciso responsabile, l'avidità dell'uomo. Occorre sapere che circa il 75% delle produzioni agricole di-pende direttamente dall'attività delle api.

Pattada non ha certo problemi di pesticidi ma i cambiamenti climatici si fanno sentire anche da noi. Per produrre lo stesso quantitativo di miele che si otteneva negli anni 80 e 90 si è dovuto quasi raddoppiare il numero di alveari in allevamento. Inoltre una attività professionale non può prescindere dal praticare il nomadismo cioè lo spostamento degli alveari in altri territori per produrre in stagioni in cui da noi vi è totale assenza di fioriture. Questo comporta spostarsi con gli alveari in zone dove l'agricoltura intensiva è più praticata. Ma dalla fine degli anni 90 si sono affermati sul mercato i neonicotinoidi, noti anche come i pesticidi che uccidono le api.

Dal 2000 la produzione principale della nostra azienda, il miele di Eucalipto, è letteralmente crollata, proprio in coincidenza con l'utilizzo da parte degli agricoltori di quegli antiparassitari. Sento il dovere di denunciare pubblicamente l'avvelenamento costante in atto nelle nostre campagne.

Il declino delle api in relazione all'uso di pesticidi è un tema di studio a livello mondiale, così come gli effetti sul corpo umano, ma nonostante le prove scientifiche non manchino, e anche quando si arriva a proibire l'uso di alcune sostanze, nuovi prodotti si affacciano sul mercato.

Agli agricoltori che obiettano che senza pesticidi non riescono a produrre, gli esperti obiettano che «la tecnologia ha fatto passi da gigante nello studio di nuovi metodi biologici di coltivazione, ma per incentivar-ne l'introduzione è necessario che i contributi pubblici per l'agricoltura siano destinati solamente a questo settore»: gli agricoltori sono ancora poco incentivati ad adottare metodi alternativi.

La moria delle api è un fenomeno in atto da anni in Italia, in Europa e nel mondo, che prosegue perlopiù nell'indifferenza. Lo spot che si vede nei canali televisivi serve a sensibilizzare la collettività, ma se alle belle parole e ai buoni sentimenti non seguiranno azioni concrete c'è all'orizzonte un cielo grigio per le api, per gli apicoltori, per la stessa agricoltura e non solo.

Una affermazione attribuita a Einstein ricorda che «se le api scomparissero dalla terra, all'uomo non resterebbero che 4 anni di vita».

Filippo Corveddu