Storie di migranti, schiavitù e speranze

Davanti all'ingresso dell'ufficio immigrazione nella sede della CGIL di Foggia un giovane ragazzo attende di entrare seduto su di una sedia. Una donna fa capolino dalla stanza e sorridendo gli chiede gentilmente di andarle incontro; è Magdalena Jarczak, giovane sindacalista d'origini polacche.
Come molte persone Magdalena lascia la Polonia nel 2001 per guadagnare qualcosa in Italia per alcuni mesi: «un amico di famiglia aveva promesso a me e mia sorella un buon lavoro», racconta. Ma le cose vanno diversamente.
Arrivate alla stazione di Foggia le due ragazze vengono portate in un casolare abitato da altre persone. «Ero sorvegliata a vista da alcuni individui, da subito», ricorda, «mancavano acqua e luce».
Magdalena e la sorella ogni giorno lavorano per dodici ore sotto il sole cocente delle campagne della Capitanata. «Non mi pagavano mai e rientravo al casolare per mangiare solo ciò che ci capitava tra le mani, dei pomodori e del pane - racconta - I caporali ci impedivano qualsiasi comunicazione con l'esterno».
Durante una notte Magdalena sente parlare alcuni uomini di ragazze che «sarebbero state vendute in strada alla fine della stagione di raccolto». Qualche giorno dopo, la giovane polacca non ci pensa su un attimo, mentre un caporale tenta di caricare in macchina la sorella, la strappa dalla sua presa e le due trovano riparo in una casa tra le campagne vicino Foggia. Ogni week end quella villa sperduta tra i campi è abitata da una famiglia che la utilizza come seconda casa. «La famiglia proprietaria si è accorta della situazione in cui versavamo e così ha deciso di aiutarci a fuggire da quella situazione». Una volta libere, le due ragazze polacche decidono di sporgere denuncia, ma «il sistema era marcio», racconta Magdalena, «le istituzioni e le forze dell'ordine conoscevano perfettamente cosa accadeva nella campagna». Così la denuncia finisce nel vuoto. Tra il 2000 ed il 2006 nella Capitanata scompaiono 119 polacchi, mai ritrovati. Dopo questa esperienza e stanca di sentire storie simili alla sua, Magdalena si presenta alla CGIL dove con-segue un tirocinio. «Qui alla CGIL proposi l'apertura di uno sportello migranti, la proposta venne accettata e sono stata assunta dal sindacato come responsabile dell'ufficio migranti». Siamo nel 2006, l'idea di Magdalena funziona e si trasforma in sindacato di strada. «Le persone, vedendo una ragazza straniera, si fidavano di più. Quell'idea ha funzionato e continua ancora a supportare i braccianti che provengono soprattutto dall'Africa», racconta la sindacalista.
Grazie all'attività sindacale continua e alla presa di coscienza di molti dei lavoratori stagionali, «molti uomini che lavoravano nelle campagne per 30 euro al giorno sono arrivati a chiedere più tutele lavorative e spesso a denunciare i padroni», prosegue Magdalena. Nonostante l'intensa attività del sindacato di strada ed il lavoro continuo di Magdalena, ancora oggi resta difficile entrare in contatto con le donne lavoratrici, «Romene e bulgare abitano nei borghi foggiani. Sono controllate ma dimostrano poco interesse per i propri diritti», sottolinea la sindacalista, «accettano paghe molto basse per guadagnare qual-che soldo da portare a casa, e questo crea forti dislivelli».
Ad esse si aggiungono numerose ragazze nigeriane destinate a tutt'altro mercato. Le donne restano una delle realtà più nascoste di questo mondo sommerso, dove minacce e soprusi diventano una drammatica situazione quotidiana, soprattutto all'interno degli insediamenti informali presenti in tutto il territorio foggiano.
A pochi chilometri dal capoluogo della Capitanata, tra case diroccate e sterminati campi si intravedono i primi ripari di fortuna della baraccopoli di Borgo Mezzanone, la più grande d'Europa, chiamata informalmente La pista. Qua nella stagione estiva si raggiungono più di 3500 presenze che si aggiungono alle altre 3500 disseminate tra il gran ghetto di Rignano Garganico e quello di Tre Titoli (Cerignola).
«Non c'è più acqua potabile», queste le prime parole di alcuni giovani ragazzi ghanesi ascoltate alla baraccopoli. Le condizioni igieniche sono precarie, manca l'elettricità e l'acqua è presa all'esterno del campo. «E' vero. Non c'è più acqua potabile nei silos. Risolviamo tutto in serata», rassicura Yussef, rappresentante in Puglia dell'Associazione Ghanesi in Italia e membro della ONG Intersos mentre va incontro ai suoi connazionali.
Tra loro c'è Benjamin. «Da troppi anni ho forti dolori addominali, all'ospedale mi curano con un antidolorifico, ho un'ernia ed il dolore è insopportabile, sono sempre al pronto soccorso», racconta. Fuggito dalla Libia nel 2011, si è ritrovato a vivere al CARA di Borgo Mezzanone, proprio accanto alla baraccopoli, per poi ripiegare dentro l'insediamento. «Ho attraversato la Costa d'Avorio, sono finito in Libia e poi ho visto il mare. Ho rischiato la vita per un futuro diverso, ma da quando mi trovo qua non sono cambiate molte cose», racconta con voce strozzata mentre tra le mani stringe alcuni referti medici; «Come posso lavorare con un'ernia, non riesco ad alzare pesi!», continua. «Senza lavoro non posso avere una casa, e nemmeno documenti. Ho bisogno di aiuto». Benjamin come altri abitanti del-la Pista, ogni mattina si sveglia alle quattro per raggiungere le piantagioni di pomodoro stringendo i denti dal dolore: «Guadagno 30 euro al giorno lavorando più di 10 ore», poi scuotendo le spalle conclude, «non è importante chi sia il padrone, buono, cattivo, dipende! Io so che così non posso andare avanti».
Non distante da un gruppo di persone che ascoltano musica e dei ragazzi che preparano da mangiare c'è un rogo. «Là vicino c'era la baracca di Mohamed Ben Ali, conosciuto come Bayfull», ricorda Yussif, «perse la vita perché la sua baracca andò a fuoco, aveva solo 37 anni». Da anni si parla di caporalato, di sfruttamento, ma le cose con il tempo non cambiano: «Se prendi parte ad un progetto lavorativo questo dura non più di sei mesi, quando scade che alternative hai? Torni dai caporali!». Yussif spiega così come il ricatto occupazionale aumenti lo sfruttamento: «Il caporale diviene l'unica persona al quale rivolgersi per la garanzia di un riparo occasionale e per racimolare qualche soldo», ribadisce, «non ci sono soluzioni a lungo termine, le prospettive si fermano dentro ad una baracca».
La pista è terra di nessuno. Aggressioni verso i migranti di ritorno dal lavoro, minacce e ricatti sono all'ordine del giorno. Da più di vent'anni il sistema sfruttamento/caporalato va avanti nella quasi indifferenza totale, così per migliaia di lavoratori e lavoratrici la baraccopoli è luogo dove le prospettive future rimangono bloccate in un tempo in-definito. La FLAI CGIL di Foggia evidenzia come al 31 luglio 2020 siano state presentate solo 797 domande di regolarizzazione. La recente sanatoria non ha prodotto risultati positivi: i migranti per ottenere un regolare contratto di lavoro devono dimostrare d'esser stati presenti in Italia prima dell'8 marzo 2020, senza essersi allontanati dal territorio italiano. L'alternativa è possedere un permesso di soggiorno scaduto al 31 ottobre 2020. «Come possono essere rispettati tali parametri se, ad esempio, le persone sfruttate nei campi per anni non sono mai riuscite ad ottenere alcun documento?», ricorda Magdalena.
Se da un lato la recente sanatoria del Governo Conte non ha posto alcun rimedio allo sfruttamento nelle campagne, esistono nel territorio pugliese esperienze autogestite che rompono il muro di silenzio creatosi attorno ai campi desolati della Capitanata. A Bari e a Nardò (Le) esistono le realtà di Sfruttazero. Un progetto di tipo cooperativo e mutualistico che vede direttamente protagonisti migranti, contadini, giovani precari e disoccupati, che vogliono avviare o continuare un'attività lavorativa attraverso la produzione di prodotti lo-cali e conserve per costruire sul territorio relazioni ed economie solidali. Alle logiche schiaviste del caporalato si oppongono così pratiche di mutuo soccorso che contribuiscono ad incidere direttamente sulle filiere agroalimentari, oggi nelle mani dell'agro-business e delle mafie, affinché, come dicono i fautori del progetto, «l'oro rosso, da simbolo di sopraffazione e caporalato in Puglia, diventi simbolo di emancipazione, riscatto e speranza di un futuro diverso».
testo e fotografie del Focus sono di Giacomo Sini
Giacomo Sini nasce a Pisa, (Italia) nel 1989. Di origini pattadesi, ha sempre abitato a Livorno. Nel 2014 ha conseguito la laurea in scienze sociali presso l'Università di Pisa. Giornalista e fotogiornalista, ha attraversato cinquanta Paesi fotografando le realtà sociali e politiche. Appassionato del Medio Oriente e dell'Asia centrale, ha fotografato più volte le realtà di conflitto in Siria, Libano e Kurdistan. Si interessa soprattutto di sto-rie di rifugiati provenienti da zone di conflitto e post-conflitto e di reportage culturali.
Da qualche anno si occupa anche di interni, raccontando storie di migranti, resistenze e riscatto. Le sue opere sono state pubblicate su alcuni media nazionali ed internazionali tra i quali Vice Magazine, El Pais, Neon Stern Magazine, L'Express, Humanité Dimanche, Il Manifesto, Corriere del Ticino, NZZ, Die Zeit, Taz, National Geographic, Venerdì Repubblica, D Repubblica, FQ Millennium (Fatto Quotidiano), The New Internationalist, Al Jazeera, The Guardian, Freitag, Der Spiegel.
Lo ringraziamo per la collaborazione.