Un futuro a termine

Nel lontano 2006, una versione disperatamente arrancante di me stessa - studentessa e lavoratrice per atavico senso di colpa verso il buon senso comune di Bidda - s'imbattè nel primo libro di una donna e scrittrice che ben presto sarebbe diventata uno dei miei centri di gravità permanente, per le mie istanze represse e le mie convinzioni ancora senza voce.
Lei era - ed è - Michela Murgia, e la sua prima pubblicazione ha per titolo Il mondo deve sapere, un racconto tragicomico della sua esperienza presso un call center facente capo a una multinazionale denominata KIRBY (so che tant* di voi conoscono bene di cosa si tratta).
Ribadisco: nel 2006 vagavo per i campi del Tennessee (cit) del mio spirito confuso e felice, difatti apprezzai prevalententemente il delizioso sarcasmo con il quale la Murgia descriveva, minuziosamente, un vero e proprio inferno del telemarketing, con tecniche di condizionamento e raggiri psicologici, salari ridicoli e CASTIGHI aziendali. Sicchè, mentre leggevo, pensavo: «A me non capiterà mai. Sono intelligente, moderatamente colta, chi mai potrebbe fregarmi?»
Come non detto.
A fine settembre dello scorso anno, ho acquistato il libro (quello del 2006 era destinato a una cara amica), e rileggendolo i sorrisi si sono fatti più tesi e l'animo pesante. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e alcuni di quei ponti sono crollati sotto il peso delle aspettative disattese e della vita che spariglia le carte. Michela mi ha sempre parlato, come una veggente non improvvisata e io, che adesso viaggio per i trentanove, mi rendo conto che la storia - soprattutto quella intima ed esistenziale - si studia a memoria, ma non ci insegna nulla.
Cos'è cambiato da quella famigerata legge 30 sul lavoro, quella intitolata al giuslavorista Marco Biagi ucciso dalle Nuove Brigate Rosse nel marzo del 2002? Assolutamente nulla! La legge 30, tra le altre cose, introduceva un concetto fino ad allora conosciuto solo agli addetti ai lavori, i giuslavoristi, appunto, ma che ben presto anche il fornaio sotto casa avrebbe utilizzato quasi come un intercalare: flessibilità; praticamente l'antenata di un'altra parolaccia che va molto di moda: resilienza. Credo di appartenere a quella generazione cresciuta a pane e flessibilità, a balle stratosferiche che ci palesavano retribuzioni congrue e sicure, possibilità infinite di scegliere un impiego su misura e il grande dono della libertà di poter abbandonare un lavoro e subito trovarne un altro. In pratica un gigantesco centro commerciale, dove in cambio di diritti fondamentali e strenuamente combattuti si poteva scegliere il lavoro dei sogni. Precario però, non flessibile. Precario. Già, perchè il tema del lavoro in Italia meriterebbe così tanto inchiostro che al confronto la biblioteca di Giacomo Leopardi potrebbe tranquillamente diventare un ripostiglio per le scope; infatti vorrei puntare il focus sul nostro ridente borgo, perchè è la realtà dove ho prevalentemente lavorato fin da ragazzina.
Qui si è passati dalla balla della flessibilità, anche ad alti livelli professionali (insegnanti, operai specializzati, impiegati a tempo) alla farsa stucchevole dei finti contratti a tempo indeterminato, che hai voglia tu di spiegare al conoscente di turno che se lavori trenta ore a settimana ma il tuo capo te ne assicura meno della metà e neanche ti garantisce il minimo sindacale non solo non sei resiliente, ma potresti tranquillamente passare da lavativ* e ingrat*!
Queste dinamiche vergognose si alimentano del cosiddetto silenzio-assenso, vuoi per il timore di non riuscire a trovare altro, ma anche e soprattutto per vergogna.
Ma sia chiara una cosa: c'è chi, a mani basse, continua ad approfittarsene, convinti che la vita delle persone non sia una risorsa, ma un costo da ridurre all'osso, ad aumentare i profitti sul nostro senso di inadeguatezza.
La mia generazione è stata depredata e con ogni probabilità questo sarà l'andazzo anche per le prossime, ma la misura è colma e la vita una soltanto.
Auguro a tutt* di poter provare tutta quella rabbia dinamitarda che occorre per cambiare le cose.
Con gratitudine infinita, que-sti pensieri li dedico alla memoria di Michela Murgia e di Sara Viva Sorge, 27 anni, infermiera, schiantatasi con la sua auto dopo due turni di notte consecutivi. A tempo indeterminato.
Angela Falchi