Un groviglio da dipanare

27.04.2021

I partiti non godono oggi di buona fama. Anche se, a dire il vero, sono formazioni che hanno poco a che fare con quanto previsto dall'articolo 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi libera-mente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Nell'immediato dopoguerra, in effetti, svolsero questo compito, rappresentando i diversi ceti popolari e produttivi, formando una classe politica, mandando nelle istituzioni (Parlamento nazionale, innanzitutto, ma anche assemblee provinciali e comunali) persone capaci di portare nel dibattito pubblico i diversi interessi economici e sociali. La situazione di democrazia bloccata dagli accordi internazionali - che collocavano l'Italia nel blocco occidentale e impedivano di fatto l'alternanza e l'ascesa al governo del più forte partito di opposizione, il PCI - determinarono quella che fu chiamata la partitocrazia, cioè l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti di governo, giudicati quasi inamovibili; con i fenomeni di corruzione (non solo morale ma proprio del ruolo dei partiti), di clientelismo, di inefficienza, e anche di terrorismo che seguirono. Il tentativo, intrapreso soprattutto da Aldo Moro, di superare questo schema, associando progressivamente al blocco democristiano le forze di sinistra, terminò con il rapimento e assassinio dello stesso presidente della DC.

La forte base ideologica dei partiti di allora impedì lo stravolgimento dell'assetto costituzionale e dell'impianto proporzionale delle leggi elettorali. Fu addirittura chiamata legge truffa quella che garantiva alla coalizione che avesse superato la maggioranza assoluta del consenso elettorale di godere di un esiguo premio nel numero di parlamentari eletti. Paragonate a quella proposta, le leggi elettorali che seguirono, di stampo maggioritario, sarebbero ben più che truffaldine.

Una democrazia rappresentativa ha bisogno che sia assicurata al-le assemblee parlamentari una composizione corrispondente al consenso elettorale; questo non ha impedito che - pur in un clima di forte contrapposizione - il Parlamento trovasse la sintesi dei diversi interessi approvando leggi quali lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, la tutela della maternità e dei diritti delle donne ad essa connessi.

Il sistema elettorale fu scardinato dalla richiesta di maggiore governabilità, dalla necessità di ridurre il numero dei partiti e di attenuare l'eccesso di potere di quelli più piccoli che, essendo necessari per la formazione dei governi, tendevano a sovrastimare il loro peso falsando così il risultato effettivo delle elezioni. Inoltre - si diceva - occorreva restituire ai cittadini il potere di decidere da chi essere governati, introducendo l'elezione diretta, almeno nelle istituzioni amministrative, dei ruoli di direzione; in questo modo, però, veniva completamente svuotato il potere delle assemblee, che il sindaco o il presidente di provincia o regione poteva mandare a casa a piacimento (prima avveniva - e giustamente, nel caso di manifesta incapacità di assicurare la necessaria sintesi tra le forze di go-verno - proprio il contrario).

Il fallimento del sistema maggioritario o comunque falsato da premi di maggioranza e sbarramenti, è sotto gli occhi di tutti: il numero dei partiti è cresciuto a dismisura, i partiti sono stati trasformati in macchine di potere personali o di lobbies, che invece di aumentare hanno svilito il ruolo degli elettori. E infatti alle consultazioni partecipa un numero sempre minore di persone che hanno percepito l'inutilità sostanziale del loro voto (nella tabella vengono riportati i diversi motivi con i quali la mascherano).

Per quanto sia impossibile tornare alla forma-partito del Novecento, visti i profondi mutamenti della società e la possibilità di relazioni immediate e variabili introdotta dallo sviluppo delle tecnologie informatiche, il dettato costituzionale resta valido nei suoi obiettivi: dei partiti - come di altri corpi intermedi quali sindacati, associazioni di categoria, e via dicendo - la politica non può fare a meno se non vuole scivolare nel populismo in cui il Capo parla im-mediatamente al suo popolo troncando ogni possibilità di dialogo e confronto con chi esprime opinioni diverse dalla sua. Il passaggio dalla democrazia alla oligarchia (magari mascherata dalla tecnocrazia dei presunti governi dei migliori) è un rischio palpabile.

Il groviglio può essere dipanato solo tornando alla Costituzione: partiti governati in modo democratico, capaci di raccogliere e interpretare le esigenze della loro base e di trasformarle in scelte politiche e legislative; partiti che contino per il consenso che raccolgono, senza falsare il risultato elettorale; partiti che tornino a diramarsi nel territorio, facendo in modo che le possibilità di informazione e comunicazione dei social media aiutino (e non sostituiscano) il rapporto diretto con le realtà concrete dei luoghi; partiti che formino e selezionino dirigenti autorevoli e preparati, in grado di leggere la società e di guidarne la trasformazione.

In questi giorni termina la sua lunga carriera politica (per quasi 16 anni ininterrottamente alla guida della Germania) Angela Merkel: non ha avuto bisogno di alcuna droga elettorale, essendo il sistema elettorale tedesco di tipo proporzionale, corretto solo da uno sbarramento del 5% per evitare l'eccessiva frammentazione e dal principio della sfiducia costruttiva (un governo si manda a casa solo se ce n'è un altro pronto a sostituirlo, e non con crisi al buio).

Ecco, se si vogliono salvare i partiti e i governi - a tutti i livelli istituzionali - sono sufficienti quei due correttivi al sistema proporzionale. Il resto è truffa: perché in un sistema maggioritario i partiti non saranno mai altro che macchine elettorali al servizio degli interessi più forti e più ricchi.

Salvatore Multinu