Un paese ci vuole

17.03.2021

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti»: così scriveva Cesare Pavese nel romanzo La luna e i falò. La gente, le piante, il territorio, le case, sono oggetto dei due focus di questo numero: per non sentirsi soli, ma una comunità di persone che condividono uno spazio e un tempo, problemi e speranze, opportunità e disagi.

Ma per essere un paese serve conoscersi, rispettare la storia e la geografia di un luogo, non solo fisico ma sociale ed economico. Serve imparare a raccogliere i frammenti delle nostre radici, ricomporli in un puzzle che restituisca l'immagine del passato, fotografi il presente e ci renda capaci di immaginare un futuro: una grande operazione che è insieme culturale e politica; un'operazione che andrebbe fatta periodicamente e che invece non facciamo da anni, trascinati dagli eventi - piccoli o grandi - che riguardano più o meno profondamente e intensamente Pattada, ma che neanche proviamo più a governare.

A chi tocca dare lo spunto, se non, anzitutto, a chi ha gli strumenti per farlo? A chi si è proposto - ed ha avuto il consenso - per rappresentare le esigenze di ogni singolo cittadino?

E poi a ciascuno di noi che abitiamo questo piccolo pezzo di mondo, al quale siamo profondamente affezionati perché qui si dipana la matassa della nostra vita personale e sociale, nelle sue relazioni come, talvolta, nella solitudine faticosa delle nostre scelte e delle nostre riflessioni, anche quando ci portano lontano, per periodi più o meno lunghi: resta sempre, infatti, quel desiderio quasi insopprimibile di tornare, di rivedere amici e parenti, magari scomparsi, negli scorci di paese nei quali eravamo abituati a conoscerli o immaginarli.

Forse sono sentimenti che i più giovani non provano più, forse sono solo illusioni. Eppure resta la coscienza che un paese vuol dire non essere soli.