Demografia. Verso la catastrofe

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento fatto dal prof. Marco Breschi, ordinario di Demografia presso l'Università degli Studi di Sassari, nel Convegno organizzato dalla Diocesi di Ozieri «Spopolamento e speranza di rinascita». Emerge la gravità della situazione per l'Italia, per la Sardegna e per le sue zone interne.
Il problema dello spopolamento non sembra prioritario nel'agenda politica. Perché?
Pensiamo al tema cambiamento climatico: è ormai all'attenzione di ogni persona in ogni parte del pianeta. Per lo spopolamento non è così: non si riconosce come problema universale perché non lo è; perché il modo con cui guarda alla demografia Gavino è profondamente diverso da quello di Idris (nome tipico di un bambino nigeriano). Sono due storie diverse. Noi siamo in una realtà di circa 1,6 milioni di abitanti. Se si guardano le proiezioni, nel 2070 scivolerà sotto il milione di abitanti. Se si guarda la Nigeria, che ha una popolazione di circa 200 milioni di abitanti, a fine secolo arriverà a 800 milioni, più dell'intera Europa. La capitale della Nigeria, Lagos, che attualmente ha 16-18 milioni di abitanti, arriverà a 100 milioni nello stesso periodo. Lì i problemi sono chiarissimi: ogni giorno arrivano a Lagos, dalle campagne, 20 mila persone che chiedono abitazioni. Nessun paese, neanche il più organizzato del mondo, sarebbe in grado di creare abitazioni, infrastrutture, servizi per 20 mila persone che ogni giorno, ogni mattina, si presentano lì.
Cosa ha in comune questo con il problema della Sardegna o con lo spopolamento delle nostre realtà? Nulla!
Perciò nell'agenda internazionale il problema della popolazione è messo al margine, perché occorre parlare lingue totalmente diverse quando ci si riferisce ai paesi sviluppati. Per questo c'è un grande difficoltà; e questo sembra banale, ma al livello delle grandi organizzazioni internazionali (FMI, Banca Mondiale, etc...) il problema rimane sotteso, anzi prevale un discorso opposto a quello che dovremmo fare nelle nostre realtà, e cioè il discorso del contenere la crescita di popolazione.
Tutte le stime dicono che dagli attuali otto miliardi, entro la fine del secolo la popolazione mondiale supererà i 10 miliardi. Gran parte di questa crescita sarà in Africa, che diventerà un continente di oltre 4 miliardi di persone (attualmente è circa 1 mld), il che fa capire immediatamente quale possa essere lo scenario. Alla fine del secolo l'Italia scivolerà dagli attuali 60 milioni a circa 40 mln.
Gli italiani e i sardi sono sempre di meno e sempre più anziani
C'è poi un altro aspetto che non ha nulla in comune con i paesi che spingono dal lato demografico: non solo da noi ci sarà un tracollo di popolazione, ma cambierà la conformazione di questa popolazione. Due semplici dati: attualmente in Italia abbiamo 2,2 anziani (65 anni o più) per ogni giovane (da 0 a 14 anni); a breve questo dato, in termini di previsione, sarà circa 3,4 anziani per ogni bambino/ragazzo. I dati sono più crudi per la Sardegna: le previsioni sono di un decremento del 30-40% della popolazione. Attualmente ci sono 170 mila persone tra 0 e 14 anni, a fronte di 370 mila persone di 65 anni o più. Al 2070, le prime saranno 85 mila; le seconde saranno oltre 400 mila, quasi 5 anziani ogni giovane. Come potrà funzionare una economia che si dovrebbe fondare solo sulla popolazione anziana? Ancora, se si considera la categoria dei cosiddetti supervecchi (da 85 anni in su), nel 2070 sarà quasi il doppio dei giovani. Sono queste le cifre che abbiamo davanti, un problema totalmente nuovo, che non si era mai visto prima. La piramide demografica sarà ribaltata. Il nostro Paese, quasi nell'indifferenza, sembra avviato al suo declino. E già nel 2050 non saremo in grado di mantenere gli attuali livelli di produzione e di reddito.
Cosa fare? Le risposte sono complesse. Perché il tema è ancora più drammatico se ci si accosta ai piccoli centri. Prendiamo Ozieri: da poco è scivolato sotto la soglia dei 10 mila abitanti, e sta ritornando a quella dimensione che grosso modo aveva nei primi decenni successivi all'unità d'Italia (circa 7000 abitanti). Per rilevare l'entità del problema si può fare una considerazione banale: si prende la distanza tra generazioni, che nel passato era di 25 anni e oggi possiamo considerare 30 anni, che è più o meno l'età alla quale si fanno figli. Attualmente a Ozieri ci sono 57 bambini di meno di un anno di età. I potenziali genitori (coloro che hanno 30 anni) sono 127. Se prendo i nonni (60 anni) sono 151 persone, tre volte il numero dei neonati. Andando ancora avanti (novantenni), abbiamo più o meno lo stesso numero dei neonati. Cosa ci dice questo dato, che ci fa capire perché è difficile correggerlo (e non c'è consapevolezza di questo)? Se prendo i 57 bambini di oggi - ipotizzando che non ci siano migrazioni e mortalità - questi saranno i genitori dei nuovi nati, che non saranno più di 25-30. All'altro passaggio diventeranno 12. Ecco perché si è avviati verso l'estinzione. In una proiezione fatta per 7 comuni di questa realtà territoriale, attualmente di circa 18 mila abitanti, al 2050 saranno più vicini a 9 mila che a 10 mila.
«Avrò una scuola elementare?», «Avrò una scuola?»
C'è, quindi, un grande svuotamento. Idris non ha nulla a che vedere con questa realtà. Un bambino che nasce qua si domanderà: «Avrò una scuola elementare? Avrò una scuola media? Avrò una scuola superiore?». Il problema è opposto per Idris che si domanderà semplicemente: «Avrò una scuola?», perché quello è un paese povero che non ha la capacità di fornire scuole per tutta la massa di persone che lo abitano.
Allora, proviamo a sintetizzare la situazione in tre concetti.
1 Sprofondo Sud. L'Italia è destinata a perdere 12 milioni di abitanti nel giro di mezzo secolo (anno 2070). Di questi, 6 milioni si verificheranno al sud e nelle isole (-33%); il Nord tiene meglio, perde solo il 10%, il Centro perderà il 18%. Se si considerano le regioni con le peggiori performance, tutte del Sud (Basilicata, Sardegna e Molise) la Sardegna si avvicina a una perdita del 40%. Quindi, c'è una perdita in tutta Italia ma la parte più consistente è nel Sud.
2 Il vuoto. Il vuoto si misura con la densità per kmq. Attualmente in Italia ci sono circa 200 ab/kmq; nell'arco di 50 anni questa cifra scivolerà a 150 ab/kmq. La Sardegna, che attualmente ha 68 ab/kmq, arriverà a circa 40 ab/kmq. Tra le dieci province meno abitate, tre sono sarde, e spicca su tutte Nuoro, la provincia italiana meno popolata, meno della Val d'Aosta con le sue montagne. Attualmente Nuoro ha 38 ab/kmq, tra cinquant'anni ne avrà meno di 20 ab/kmq.
3 La fine dei piccoli Comuni (statisticamente quelli con meno di 2000 abitanti, che attualmente sono il 45% dei Comuni). Il numero dei piccoli Comuni non è impressionante, ci sono dati simili in altre realtà europee, con un tessuto abitativo che si è determinato in una rete a maglie molto piccole. Ma il dato da considerare è un altro. Nel decennio precedente la pandemia, i piccoli Comuni, che avevano circa 3,5 milioni di abitanti, ne hanno perso più di 250 mila; nello stesso periodo l'Italia, nel suo complesso, non aveva sostanzialmente perso popolazione. Chi perde, e perde molto, sono i piccoli Comuni, a sud in modo particolare. Il Sud che è stata storicamente sempre la fucina della demografia, che ha fornito braccia al Nord e in varie terre lontane, non fornisce più braccia, anzi si svuota. E non era mai successo.
Ma non tutti i piccoli Comuni perdono: perdono i piccoli Comuni della fascia collinare e della montagna bassa, mentre quelli della montagna alta tengono (Alto Adige, per esempio).
Cosa si può fare? Pochissimo, se non si interviene subito
Questo è lo scenario che abbiamo davanti. Che cosa si può fare? Pochissimo, in particolare se non si interviene subito. Ed è complesso, anche perché non abbiamo mai sperimentato, nella storia dell'umanità, grandi popolazioni che diminuiscono per loro scelta; nessuno, in Italia ci obbliga a non fare figli, nessuno ci ha imposto, come in Cina, il figlio unico. È una nostra scelta. Perché è successo è difficile dirlo: si possono invocare fattori economici, fattori culturali, la secolarizzazione e via dicendo, ma probabilmente è un insieme di fattori.
Quali possono essere le ricette? Partiamo da un punto cardine: la famiglia, la bistrattata famiglia - che forse non è più famiglia, è qualcosa di diverso. Attualmente su 60 milioni di abitanti abbiamo più di 25 milioni di famiglie. Le famiglie sono piccole: 2,2 componenti per famiglia; non c'è più nulla della famiglia del periodo precedente, quella rurale. Ormai il 35% di queste famiglie è unipersonale, e di qui a 20 anni diventeranno oltre il 40% (previsioni ISTAT). Le coppie senza figli sono già il 20% e diventeranno il 23%. Le coppie con qualche figlio (spesso solo uno) sono attualmente meno delle famiglie unipersonali (30%) e diventeranno il 25%. Eppure, la famiglia è un punto cardine, perché - senza accorgersene - è stato un elemento di protezione sociale.
Percorsi di studio troppo lunghi bloccano l'emancipazione
Qualcuno dice che si fanno pochi figli perché c'è troppo amore verso i figli, si ha paura di fare figli, ma sicuramente la famiglia è stato un elemento di sostegno. I figli rimangono molto a casa, escono dalla famiglia in modo tardivo, perché il reddito o la pensione del genitore è il vero sostegno, e lo è stato soprattutto per i figli cosiddetti millennials. Probabilmente i figli stanno troppo a casa perché studiano troppo a lungo e perché c'è un mercato del lavoro che non funziona. Di fatto, non crescono, non hanno prospettiva. Tutte le indagini, anche le più raffinate (che indagano anche il sentimento, i valori dei giovani,etc...), segnalano una cosa: il grandissimo senso di disagio. E la pandemia ha accentuato tale disagio. Ora, una generazione non si riproduce né economicamente né demograficamente se non è motivata, se non ha un valore aggiunto.
Nell'immediato dopo guerra, i genitori sentivano che avevano un'occasione grandissima, una spinta sociale, un ascensore sociale che saliva, avevano voglia di creare la propria famiglia, la propria impresa. Se si chiede ora a un ragazzo, non c'è questo sentimento; risponde che non lo sa.
Qui c'è forse una colpa di noi genitori. Non si tiene conto dei giovani, che sono pochi, gli si presta poca attenzione. Per vedere una speranza di crescita per l'Italia bisogna dare nuova vitalità e nuovo entusiasmo a queste generazioni giovani. Come si può fare? Cosa difficilissima, perché se una generazione si scoraggia si crea un circolo vizioso, sia dal lato demografico che da quello economico. Comunque, si può partire col riformare il mercato del lavoro, che deve essere più accogliente nei confronti dei giovani. Anche con proposte innovative, come un livello di tassazione differenziato per età: i giovani che entreranno nel mercato del lavoro pagheranno una tassa molto più bassa, per consentire di accumulare soldi; anche perché sono persone che, entrando tardi nel mercato, avranno pensioni miserrime. Altra proposta: dare maggiori sgravi alle imprese che occupano giovani, ma a tempo indeterminato, non di breve durata. Ancora: accorciare i percorsi di studio e scolastici, che sono oltre tutto troppo ripetitivi. Un esempio su tutti: in Italia non siamo abituati a fare un bilancio del costo dell'età; ognuno di noi è un costo, nella fase iniziale e quando sarà pensionato. In Italia una persona è un costo per il sistema, in media, fino a 27 anni; negli USA è un costo fino a 19 anni e mezzo.
Altri elementi che bisognerebbe introdurre, e questo è un punto delicatissimo: l'ascensore sociale non funziona più. Solo chi ha degli asset può beneficiare di un ascensore sociale, perché l'Italia è un paese poco dinamico, e l'ascensore sociale non è più quello degli anni 50-60 che ha tirato su tante opportunità; è lento. Bisogna valorizzare il merito e la capacità.
Abbassare l'età del voto e mettere dei limiti agli incarichi politici
Altro punto: abbassare l'età del voto. Attualmente chi vota sono gli anziani, quattro anziani per ogni giovane: per dare peso si può allargare la fascia di chi vota. Prima lo si faceva a 21 anni, ora lo si fa a 18; si può dare il voto ai sedicenni. E, insieme, porre dei limiti di età ad alcuni incarichi: nella politica, nei consigli di amministrazione. Come si parla di quote rosa si può parlare di quote giovani. Tutto ciò porta valore e dà il senso di quanto la società crede nei giovani.
Altro punto, forse il più drammatico, e dimenticato da tutti: l'eredità. Chi ha più di 60 anni detiene il 50% della ricchezza. In passato un figlio riceveva l'eredità intorno ai 36 anni, l'età in cui stava costruendo la sua famiglia, la sua casa, e quei soldi erano utili a una persona che aveva un progetto. Oggi si eredita intorno ai 62 anni. La ricchezza è in mano agli anziani. Magari bisognerebbe cambiare la legge e prevedere una legittima per i nipoti invece che per i figli, saltando una generazione. Dare risorse ai giovani permetterà loro di garantire l'assistenza agli anziani.
Credo che sia esemplare il caso dell'Unione Sovietica, al di là delle opinioni che si possono avere su quel regime; quando è crollato il sistema sovietico, la speranza di vita è declinata di 18 anni nel giro di due anni. La sanità è una cosa che costa molto, e se non ci sono le risorse dei più giovani non si potrà erogare. Quindi sarebbe un atto intelligente anche per quando saremo anziani.
Infine, occorre investire sul territorio. Chi vive in una zona marginale si trova in una situazione di non equità. Chi vive in una città ha lì i servizi necessari: ma chi vive in un piccolo paese e ha un ictus o un infarto grave per cui arriva in ospedale dopo 40-50 minuti, il rischio di morire è altissimo. Eppure, paga le tasse come chi sta in città. Probabilmente occorre un sistema fiscale che faciliti chi decide di rimanere nel territorio. Questa è una via che va immediatamente imboccata.
Poi gli investimenti. In Italia c'è una realtà interessantissima: l'asse che va da Reggio Emilia a Bologna e arriva a Prato. Una realtà vivace, perché ogni euro - pubblico o privato - che si mette in quella zona ha un moltiplicatore 5: ogni euro investito ne produce 5. Nei territori marginali, se non si creano delle filiere, ogni euro investito ne produce 0,5. Per cui non c'è nessuna convenienza a investire in un territorio che si sta spopolando, sono soldi buttati via. Per contrastare questo, occorre che quei territori esaminino le loro potenzialità e le loro capacità, per trovare una loro filiera: bisogna credere nei distretti della vita, della qualità e della produzione. Questo è un punto cardine: fare in modo che ogni euro gettato in un territorio generi risorse. L'Università, per esempio, è un moltiplicatore di risorse: è ovvio che non si può aprire una università in ogni paese, ma alcune cose si possono fare.
L'altro elemento è quello dei trasporti e quello dell'accesso ai servizi. Ogni volta che si chiude un ufficio postale o che si chiude una scuola elementare, non è solo il risultato di uno svuotamento, è una tomba; perché senza quei servizi la famiglia tende ad andar via. Perciò bisogna fare resistenza. Ecco la vera resilienza, una resistenza elastica.
Ricette pronte non ne esistono, perché l'Italia è il primo caso - insieme al Giappone - che soffre questa situazione. La Sardegna, poi, sarebbe un caso di studio, ma bisogna farne un caso di realtà e intervenire subito.